Critica e resistenza

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Le misure coercitive a scopo assistenziale e i collocamenti extrafamiliari furono spesso criticati apertamente in passato. Per molto tempo, però, sono rimaste voci critiche di singoli individui, che hanno avuto scarso effetto. Solo agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso i media riprendono le critiche a istituti, leggi e pratiche delle autorità e avviano un ampio dibattito pubblico. A lungo, neanche la resistenza delle persone interessate riesce a migliorare la loro situazione personale.
Una corretta rielaborazione del passato presuppone una condizione indispensabile: che le loro voci siano finalmente ascoltate.

Abusi in istituti e assenza di diritti di difesa

Uno dei primi e più importanti critici del sistema assistenziale dell’epoca è lo scrittore Carl Albert Loosli (1877–1959), anch’egli cresciuto in istituti. Già nel suo libro «Anstaltsleben», pubblicato nel 1924, lo scrittore chiede l’abolizione degli istituti. Negli anni Trenta, Loosli denuncia in un altro volume e in diversi articoli la «giustizia amministrativa» come una violazione dei diritti umani. Con la sua critica, Loosli provoca l’élite sociale dell’epoca. A partire dagli anni Quaranta, anche tra i giuristi inizia a circolare l’idea di una necessaria riforma del «diritto sull’impiego della coercizione amministrativa». La critica si concentra soprattutto sulla mancanza di diritti di difesa e di possibilità di ricorso per le persone interessate.

Già negli anni Trenta anche altri soggetti criticano apertamente gli abusi che avvengono negli istituti. I giornali raccontano in modo critico la violenza, lo sfruttamento, l’abuso sessuale e persino la morte tragica di un bambino in affido. Il pubblico può anche vedere con i propri occhi gli abusi di bambine, bambini e giovani nei reportage sui giornali illustrati. Gli scatti più famosi sono quelli di Paul Senn (1901–1953), che nei suoi reportage racconta la vita della popolazione rurale e di persone altrimenti poco considerate. Le fotografie, però, vengono utilizzate anche a scopo di propaganda, per problematizzare la povertà in cui vivono le famiglie. Noti fotografi svizzeri curano reportage su bambine e bambini jenisch su incarico della Pro Juventute, per esempio. Questi reportage sono in genere degradanti e hanno lo scopo di convincere la popolazione della necessità di allontanare bambine e bambini dalle famiglie.

Il ritardo delle riforme e le proteste pubbliche

 In passato sono state persistenti le voci che hanno liquidato gli abusi strutturali nell’ambito del collocamento dei minori come tragici casi isolati e dovuti alla negligenza di singole o singoli responsabili. Al tempo stesso, però, ricevono sempre più attenzione anche le teorie di professioniste e professionisti, come la psichiatra infantile Marie Meierhofer (1909–1998), per esempio. Le sue ricerche negli istituti per la prima infanzia tra gli anni Cinquanta e Sessanta dimostrano che le bambine e i bambini affidati a queste strutture sviluppano gravi sintomi da abbandono.

Le critiche al collocamento extrafamiliare e all’esecuzione delle misure portano infine a riforme giuridiche e istituzionali. Per rimediare agli abusi, già negli anni Cinquanta erano nate associazioni come l’azione svizzera dei bambini collocati («Pflegekinder-Aktion»). L’attuazione, però, procede lentamente. Gli ambienti specializzati chiedono soprattutto formazione e stipendi migliori per il personale e più risorse finanziarie per gli istituti. 

Solo il movimento sociale del 1968, la protesta dei mass media e l’influsso dei dibattiti in ogni angolo del paese permettono di mettere in discussione autorità e istituzioni. Gli «istituti di rieducazione» finiscono sotto attacco nei titoli di diversi giornali. All’inizio degli anni Settanta anche in Svizzera, come già in Germania, ha il via un movimento sociale. La cosiddetta «Heimkampagne», una campagna contro gli istituti di rieducazione, tenta di migliorare la situazione delle giovani e dei giovani collocati in queste strutture con proteste pubbliche e, a volte, liberando in modo spettacolare le persone che vivono al loro interno. La situazione di queste persone, però, tarda comunque a migliorare, anche nonostante la loro personale resistenza. 

Fotografia a colori di una donna anziana che osserva una ragazzina mentre scrive. Si tratta della psichiatra infantile Dr. Marie Berta Meierhofer (1909-1998).

Marie Meierhofer nell'istituto di ricerca sull'infanzia che porta il suo nome (Marie Meierhofer Institut für das Kind MMI) in occasione del suo 75° compleanno nel 1984.

Resistere è molto rischioso per le persone interessate

Fin da subito ci sono persone che protestano verbalmente, tentano di scappare o fanno scioperi della fame. Altre scrivono lettere, presentano reclami o fanno ricorso tramite avvocati. I loro argomenti, però, non vengono ascoltati e il loro comportamento è addirittura considerato renitente. Chi si oppone rischia una sanzione. Allo stesso tempo, le prospettive di miglioramento delle condizioni personali, spesso precarie, sono poche. Questo è quello che dimostrano le loro storie e quello che è documentato negli atti.

La tutela legale resta a lungo insufficiente in Svizzera. Di solito, le autorità di ricorso decidono solo sulla base degli atti e della consultazione delle autorità. Nella maggior parte dei casi non fanno nessun accertamento e confermano la decisione presa dall’istanza precedente. Manca anche solidarietà nei confronti delle persone sfavorite. Le persone interessate, poi, hanno spesso pochi mezzi. Non conoscono i loro diritti, né - in genere - possono permettersi un’assistenza legale.

Interventi senza successo

L’avvocato e politico socialdemocratico del Cantone dei Grigioni Gaudenz Canova (1887–1962) si impegna ripetutamente per le persone interessate e chiede il rispetto dei diritti umani. Critica duramente psichiatre e psichiatri. Le loro perizie, a suo parere, descrivono intenzionalmente le pazienti e i pazienti come «malati di mente» e «bisognosi di internamento a tempo indeterminato». I suoi interventi, però, falliscono spesso perché i medici specialisti hanno un grande potere interpretativo. Lo stesso accade a persone meno note che si impegnano volontariamente per le persone interessate. Tra di loro troviamo assistenti sociali, parroci e giuristi, per esempio, che devono poi fare i conti con calunnie e attacchi personali.

La lunga battaglia per la rielaborazione dell’ingiustizia 

Fotografia in bianco e nero di una donna davanti a diversi microfoni su un podio. Si tratta di Mariella Mehr, scrittrice svizzera (1949-2022).
La scrittrice Mariella Mehr al podio durante la cerimonia di fondazione della Radgenossenschaft der Landstrasse (Cooperativa dei ciclisti di strada), nel 1975. Immagine: Rob Gnant. Fonte: GNA_1975.017.01.33.N, © Rob Gnant / Fotostiftung Schweiz.

Ci vuole molto tempo prima che le persone interessate ricevano ascolto e, soprattutto, vengano credute. Sempre più persone interessate accusano retroattivamente lo Stato per l’ingiustizia e il dolore subiti. Una delle prime è la scrittrice, giornalista e attivista politica jenisch Mariella Mehr (1947-2022). Mariella Mehr non solo racconta nei suoi libri la violenza subita. Chiede anche alle persone responsabili di riconoscere la popolazione jenisch come minoranza in Svizzera e di ammettere l’ingiustizia che questa ha dovuto subire. Dagli anni Ottanta la Confederazione inizia a impegnarsi per la rielaborazione dell’ingiustizia subita da Jenisch e Sinti e per la tutela delle minoranze. 

Dagli anni Novanta anche altre persone che hanno subito misure coercitive a scopo assistenziale e collocamenti extrafamiliari iniziano a esporsi sempre di più pubblicamente.. Alzano la voce a nome delle tante persone che hanno sofferto dolori inimmaginabili per l’intromissione delle autorità nelle loro vite. È grazie all’impegno tenace delle persone interessate e delle loro associazioni se l’opinione pubblica e i decisori politici prendono coscienza di questa ingiustizia e di questo dolore. L’impegno personale delle persone interessate è spesso pesante da sostenere e a volte aumenta la stigmatizzazione e l’emarginazione. Le loro testimonianze e i loro racconti dimostrano però chiaramente che non si tratta di casi isolati e consentono finalmente un’ampia rielaborazione del passatoa livello nazionale.

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