Non c’erano anche delle buone strutture di accoglienza?!
Una delle domande che ritorna di frequente è: non esistevano anche istituti «buoni», in cui bambine, bambini e adolescenti si trovavano bene? La risposta è: sì, ne esistevano, ma purtroppo troppo pochi.
A ogni nuovo studio e a ogni nuova testimonianza, il quadro per la Svizzera si aggrava: gli abusi negli orfanotrofi e nelle strutture di accoglienza non erano un’eccezione, ma piuttosto la regola.
Il collocamento extrafamiliare aumentava il rischio di essere vittime di violenza, sfruttamento, abusi, nuovi collocamenti e sradicamento. Bambine, bambini e adolescenti negli istituti erano spesso tagliati fuori dal mondo esterno, non avevano rapporti sociali stabili e si trovavano in una situazione di forte dipendenza. Spesso erano vittime di pregiudizi: quando arrivavano in un istituto o in una «casa di educazione», erano bollati subito come «difficili». Tuttavia, esistevano anche posti in cui si facevano buone esperienze.
Esperienze positive
Diverse testimonianze, per esempio, riferiscono di aver vissuto meglio in istituto che a casa. Non bisogna dimenticare, infatti, che anche in famiglia capitavano e capitano ancora oggi episodi di violenza o di abbandono di minori. L’istituto in questi casi poteva migliorare una situazione difficile e proteggere il benessere delle persone che ospitava. Alcune persone interessate ricordano di aver ricevuto amore e un’educazione attenta, di aver avuto modo di giocare e studiare. Alcune di loro hanno ricevuto sostegno anche più tardi dai genitori affilianti. Una cosa è certa: si trattava di un lavoro che richiedeva molto tempo, impegno e cura da parte delle famiglie affilianti. Da parte dello Stato, però, le famiglie affilianti non ricevevano praticamente nessun sostegno.
C’erano anche bambine, bambini e adolescenti che facevano esperienze positive negli istituti. Da adulti, qualcuno parla anche di rapporti stabili con una coppia responsabile del gruppo e ricorda di aver avuto libertà e un’istruzione scolastica stimolante. Molte persone interessate dicono inoltre che anche al di fuori delle istituzioni frequentavano persone che le facevano sentire apprezzate. Raccontano per esempio di essere state ascoltate, credute e aiutate da un’assistente sociale o da un operatore in un momento di bisogno. Mentre il contesto tradizionale spesso mandava a bambine, bambini e adolescenti il messaggio: «tu non sei niente, non sai fare niente e non farai mai niente di buono», queste persone li aiutavano invece ad avere fiducia in loro stessi, a prendere le decisioni giuste e, letteralmente, a sopravvivere.
La mentalità dell’epoca? Un’argomentazione insufficiente
Questa varietà di esperienze dimostra che anche a quei tempi era possibile essere educati nel rispetto dei propri bisogni e senza violenza. L’argomentazione che viene spesso citata, ossia che non c’erano alternative a forme di educazione violente, non convince affatto. Parlare di «mentalità dell’epoca» per sostenere che non c’era altra scelta rispetto agli abusi che queste persone subivano in istituti e famiglie affilianti, minimizza la storia delle misure coercitive a scopo assistenziale e dei collocamenti extrafamiliari. Vero è che a molti istituti mancavano le risorse per assumere personale sufficiente e qualificato, e questo finiva per sovraccaricare chi ci lavorava. Anche in queste condizioni, però, non si può giustificare la violenza esercitata, né la cultura dell’educazione sostenuta dalla direzione di molti istituti, caratterizzata da una disciplina quasi militare, da umiliazioni e da abusi, a volte anche gravi.